C’è una linea sottile, quasi invisibile, che separa la rinuncia dalla responsabilità, e la responsabilità dalla violenza emotiva.
Questa linea, che un tempo era tracciata dal buon senso, dalla cultura della solidarietà e dalla concretezza della vita familiare, è oggi continuamente ridefinita da una società che ha interiorizzato i valori dell’edonismo individualista.
Nel tempo, questa linea si è spostata: da criterio di equilibrio a confine ideologico.
Oggi, qualunque forma di sacrificio, qualunque atto di responsabilità che implichi una rinuncia personale in funzione del bene comune – della coppia o dei figli – rischia di essere interpretato come una forma di oppressione emotiva.
Una società che ha smarrito il senso del limite non è più in grado di distinguere tra ciò che si sceglie liberamente per amore e ciò che viene imposto per dominare.
Così, la rinuncia non è più segno di maturità, ma indizio di una relazione “tossica”.
La responsabilità verso l’altro non è più un valore, ma un potenziale indizio di colpa.
E l’istituzione del matrimonio, fondata proprio su un consenso alla condivisione di responsabilità e rinunce reciproche, viene svuotata di senso. Salvo poi diventare fonte di obbligazioni al momento del divorzio.
In nome di una presunta tutela, si legittima lo smantellamento sistematico dei legami.
E i figli, per il cui benessere si promettevano impegni, spariscono dal centro della scena, trasformati in spettatori silenziosi di una giustizia che ha smesso di proteggerli davvero.
Viviamo in un’epoca di totale disequilibrio interpretativo.
Ciò che per generazioni era stato letto come prudenza, dialogo, responsabilità condivisa,
oggi viene facilmente ricodificato come dinamica di controllo.
Basti pensare a un esempio concreto: una discussione tra coniugi su una spesa importante.
Un tempo questo era considerato del tutto normale, segno di corresponsabilità nella gestione familiare.
Oggi, la stessa scena può essere riletta come controllo economico, specie se a porre la questione è l’uomo.
Si crea così un paradosso:
non si promuove l’unione, ma la rottura;
non si valorizza l’accordo, ma il sospetto.
E chi invoca il dialogo, spesso viene ridotto al silenzio.
Quello che non si vuole più comprendere è che la rinuncia non è sempre violenza.
Né lo è la fatica. Né il compromesso.
La vita vera impone dei limiti, pone ostacoli, costringe talvolta a cedere qualcosa di sé.
Nel matrimonio, questo è ancora più evidente: non esiste un legame duraturo che non implichi sacrifici reciproci, scelte condivise, attività messe da parte, sogni ridimensionati per far spazio a qualcosa di più grande: la famiglia.
Ma oggi, tutto questo viene riscritto.
Ogni rinuncia può diventare un capo d’accusa.
Ogni frustrazione può essere reinterpretata come “violenza psicologica”.
Se si vuole, si può trovare la violenza dappertutto.
Basta volerla vedere. E un sistema compiacente fornirà il vocabolario e il sostegno per legittimarla.
Il risultato? La banalizzazione del dolore autentico, la distorsione del concetto di abuso, l’erosione del senso del limite e della responsabilità.
Il diritto non distingue più tra un comportamento imposto per dominare e uno accettato per amore.
E così facendo, smette di tutelare la verità.
È il vivere insieme che impone le rinunce.
E il tentativo di sottrarsi a esse è umano, comprensibile, naturale.
Ma chiedere una rinuncia all’altro non è violenza, se nasce all’interno di un equilibrio,
se è accompagnata dalla disponibilità a rinunciare a propria volta.
Questo è il patto implicito della vita in comune: si vince insieme, si perde insieme.
Si cede qualcosa, entrambi.
Non per annullarsi, ma per costruire uno spazio condiviso, in cui l’altro non è un ostacolo, ma una parte di sé.
E se si cade in un eccesso di rinunce? Questo è uno scenario possibile.
Se uno dei due si sente schiacciato, invisibile, svuotato?
Allora sì, ha il diritto di alzare la mano e chiedere un riequilibrio.
Questo è ciò che una società sana dovrebbe incentivare: il dialogo, la ricerca di un nuovo punto d’intesa, il coraggio di dire “così non ce la faccio più”, senza che ciò significhi automaticamente distruggere tutto.
Ma oggi, troppo spesso, la scorciatoia prevale: “è violenza”, si dice, e tutto finisce lì.
Senza ascolto, senza tentativi, senza riparazione.
Così si rinuncia anche alla relazione, e al senso stesso della condivisione.
Una società che considera ogni compromesso come una sconfitta, che vede nella rinuncia solo debolezza, non è più capace di sostenere relazioni durature.
Insegna a fuggire. A riscrivere. A distruggere per ricostruirsi da soli.
Ma non tutto ciò che costa è tossico.
Non tutto ciò che ferisce è violenza.
A volte, è semplicemente la vita.
E imparare a viverla insieme è il compito più difficile, ma anche l’unico che valga davvero la pena di affrontare.
I dati Istat ci raccontano una realtà impietosa:
nel 1991 in Italia si celebravano circa 7 matrimoni per ogni divorzio.
Nel 2023 questo rapporto si è ridotto a meno di 2,5.
I divorzi sono triplicati in trent’anni, mentre i matrimoni sono crollati a meno della metà.
Questi numeri sono lo specchio di una società che non sa più reggere l’idea di un legame duraturo, e che spesso trova nella separazione la risposta più semplice alle difficoltà.
L’esperienza di autrici come Erin Pizzey, fondatrice del primo rifugio per donne maltrattate, e in seguito critica del femminismo radicale, ci ricorda che la violenza è un fenomeno complesso, talvolta reciproco, e che esistono narrazioni distorte che alimentano visioni squilibrate.
Anche Valentina Cardinali, esperta di politiche di genere, sottolinea la necessità di riequilibrare le disparità storiche senza trasformare ogni conflitto relazionale in dinamica oppressiva. Una giustizia cieca al contesto e al significato relazionale rischia di diventare essa stessa parte del problema.
E infine, una riflessione sui femminicidi.
Sono una realtà drammatica e innegabile. Ma se vengono etichettati con troppa facilità solo come “espressione della violenza maschile”, si rischia di perdere di vista un’altra verità: quella di un sistema incapace di offrire soluzioni equilibrate, che contribuisce alla creazione di “mostri”. Non giustifica, ma interroga. E chi non interroga, finisce per ripetere.
Solo così si potrà tornare a costruire. E smettere, finalmente, di smantellare.
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