Tredicesima Lettera – Al nuovo Pontefice

Prefazione

Non sono un teologo, né un intellettuale, né un uomo di potere.

Sono un padre, un cittadino, un credente dubbioso e inquieto, ma che sente ancora il bisogno — forse il dovere — di credere in qualcosa di superiore.

Non necessariamente trascendente, ma certamente più grande dell’io. Qualcosa che richiami, che orienti, che tenga insieme ciò che rischia ogni giorno di disgregarsi.

Ma soprattutto, sono un padre tradito. Dalla giustizia. Dallo Stato. Dall’opinione pubblica. E, sì, persino dalla Chiesa.

E proprio per questo, sento il bisogno — oggi più che mai — di rivolgere una parola al nuovo Papa.

Scrivo questa lettera a Leone XIV non per presunzione, ma per urgenza.

Ho scoperto un mondo che ha bisogno di una voce ferma, di un’autorità morale, di uno stop alla deriva. Viviamo un tempo confuso, in cui il bene e il male vengono rimessi in discussione, in cui la verità si dissolve tra mille opinioni, in cui il dolore delle persone comuni è spesso ignorato dai palazzi — anche da quelli ecclesiastici.

Mi interessa il ruolo della Chiesa perché, volente o nolente, la Chiesa parla al mondo.

Quando tace, il silenzio pesa. Quando sussurra, la confusione cresce. Quando si piega, le coscienze si disorientano.

Scrivo anche per coloro che guardano alla Chiesa con disincanto, con sospetto, a volte persino con fastidio.

Per quelli che pensano che la Chiesa sia un luogo di repressione, un’istituzione svuotata, un residuo del passato.

Per chi la identifica solo con gli errori, gli abusi, le omissioni.

A loro vorrei dire che la guida morale della Chiesa di Roma può ancora essere voce e rifugio, ma solo se saprà tornare a essere meno dogmatica e più incarnata.

Non rinnegando il suo cuore spirituale, ma diventando presenza concreta nella società, ultima diga contro un relativismo imperante che tutto appiattisce, che tutto confonde.

Ho delle aspettative perché credo ancora — forse con ostinazione — che la Chiesa possa essere luce.

Non luce che accondiscende, ma luce che rischiara. Non specchio del mondo, ma segno di contraddizione. Non forza diplomatica, ma coscienza spirituale dell’umanità.

E proprio perché il tradimento subito mi ha fatto pagare il prezzo del disincanto, oggi pretendo — per me e per chi verrà dopo — una parola chiara. Non ambigua. Non timorosa.

Scrivo dunque perché sento il dovere di testimoniare.

Perché se i padri tacciono, chi parlerà per i figli?

E se i credenti smettono di aspettarsi qualcosa dal Papa, che ne sarà della Chiesa?

Il mio non è un appello nostalgico, ma un richiamo etico.

Un grido che chiede alla Chiesa di tornare ad essere autorità morale, capace di fissare dei paletti non per escludere, ma per custodire.

Abbiamo visto dove ci ha portato un’idea di inclusione senza forma, senza radici, con paletti troppo flessibili: nella confusione, nel disorientamento, nell’annacquamento della verità.

Oggi più che mai, c’è bisogno di una guida che non si vergogni di dire ciò che è bene e ciò che è male.

Non per giudicare, ma per proteggere. Non per opprimere, ma per salvare. Questa non è una richiesta di consenso.

È un atto di coscienza.

Un grido che chiede ascolto, prima che sia troppo tardi.

Lettera

Mi piacerebbe poter dire che guardo con fiducia al nuovo pontificato.

Che attendo con trepidazione la voce del nuovo Papa, Leone XIV, come guida spirituale e morale in un tempo confuso.

Ma la verità è che faccio fatica a sperare. Perché conosco troppo bene il vento che soffia.

Oggi si parla molto di inclusione — ed è un concetto giusto, necessario.

Ma se per includere si finisce per escludere ciò che è tradizionale, strutturato, radicato nella storia e nell’umano, allora non è più inclusione: è sostituzione.

Non si tratta di opporsi al nuovo, ma di ricordare che non si costruisce nulla cancellando ciò che ha sorretto intere generazioni.

Un’inclusione che nega il padre, la madre, la famiglia, è una forma raffinata di smembramento del tessuto sociale.

1. La riaffermazione della famiglia tradizionale.
Non come gabbia, ma come rifugio. Non come ideologia, ma come verità antropologica.
Una famiglia fondata sulla differenza tra uomo e donna, sulla stabilità del legame, sul dono reciproco e sull’apertura alla vita.
Non è questione di nostalgia, ma di giustizia verso i più fragili: i bambini.
Ogni bambino ha diritto a una madre e un padre.
Cancellare questa verità in nome della fluidità è una forma sottile di violenza.

2. Una ricentralizzazione della figura paterna.
Il padre non è un accessorio. È presenza, è limite, è orientamento.
In un tempo in cui l'autorità è vissuta come sopruso e la mascolinità è ridotta a caricatura o minaccia, servirebbe un Papa capace di dire, con fermezza e tenerezza insieme: il padre serve.
Serve alla madre, serve ai figli, serve alla società.
Non per dominare, ma per amare nella forma più esigente: quella della responsabilità.

3. Una posizione netta contro ogni forma di eugenetica mascherata.
Viviamo in un tempo in cui la vita viene selezionata ancor prima di nascere, modellata secondo desideri individuali, trattata come un prodotto da costruire. Non si parla solo di diagnosi genetiche o di editing del DNA: parliamo di banche del seme, uteri in affitto, cataloghi di donatori, diritto al figlio perfetto.
Ma tutto questo non è progresso: è un nuovo e subdolo delirio di onnipotenza travestito da diritto.
Il Papa dovrebbe alzare la voce, non sussurrare.
Difendere la vita non solo quando nasce, ma anche quando è imperfetta, fragile, imprevista, diversa.
Altrimenti si perde il senso stesso del dono, e si riduce la genitorialità a un atto di consumo.

E poi ci sono altre cose che mi aspetterei.
La condanna senza se e senza ma delle fabbriche di morte — i produttori di armi.
Un impegno sociale capace di denunciare le forme patologiche del capitalismo avanzato, che umilia i fragili e divinizza il profitto.
E una parola chiara, limpida, non negoziabile sul dovere di accoglienza dei Paesi ricchi verso chi fugge dalla miseria e dalla guerra.

Il mondo guarda alla Chiesa.
In un momento di smarrimento collettivo, c’è bisogno di una guida sicura, non titubante.
Una guida che sia capace di prescrivere, non solo di accompagnare.
Non si tratta di escludere, ma di affermare con forza che ci sono dei precetti che non devono essere superati.
Non tutto è interpretabile. Non tutto è negoziabile. Non tutto è fluido.

Oggi c’è un grande bisogno di una Chiesa autorevole, capace di parlare ai potenti senza tremare, facendosi portavoce delle istanze delle persone comuni.

Siamo all’ultima chiamata.
Un pontificato tiepido, incapace di prendere posizioni forti nel rispetto del Vangelo, potrebbe non bastare più.
E sarebbe una tragedia — non solo per la Chiesa, ma per il mondo intero.

La vera domanda, dunque, è questa: sarà la Chiesa — sotto la Sua guida — a rappresentare l’argine alla deriva, o vi lascerete tentare dal bisogno di assecondare anche le tendenze più estreme che oggi dominano la società contemporanea?

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