C’era una volta una bambina di dieci anni.
Si chiamava Lía,
ed era una bambina sveglia, molto più sveglia di quanto gli adulti pensassero.
Un giorno, all’improvviso, le dissero che non poteva più vedere il papà.
Le dissero che era un uomo cattivo, che era pericoloso. Che avrebbe potuto farle del male.
All’inizio Lía ci credette.
Gli adulti sembravano convinti,
usavano parole serie e tristi.
Una signora dall’aria stanca e col vestito grigio — l’assistente sociale —
le disse che era “per il suo bene”.
Un’altra donna, con la toga nera, le spiegò che era “una decisione per tutelarla”.
Ma Lía aveva ricordi diversi.
Ricordava le mani del papà che l’aiutavano a salire sull’altalena,
la sua voce che le leggeva storie la sera,
i suoi occhi stanchi ma buoni,
e soprattutto quel modo in cui lui la guardava:
come se fosse la cosa più importante del mondo.
E così, piano piano, qualcosa dentro di lei cominciò a dubitare.
Forse non tutto quello che le dicevano era vero.
Forse qualcuno stava usando parole grosse per nascondere qualcosa di molto piccolo,
ma molto importante:
la verità.
Poi un giorno, mentre usciva di casa,
vide una macchina parcheggiata lontano.
Dentro c’era suo padre.
Lía si fermò.
Il cuore le batteva forte.
Sapeva che non avrebbe dovuto avvicinarsi.
Sapeva che qualcuno l’avrebbe richiamata.
Ma sentiva che quel momento era suo.
Solo suo.
Allora alzò la mano
e gli mandò un bacio.
Un bacio piccolo, tremante, silenzioso.
Ma vero.
E quello fu l’inizio della rivoluzione.
Passarono alcuni giorni.
Lía continuava a pensare a quel bacio che aveva lanciato a suo papà.
Non aveva dimenticato niente:
né l’emozione che aveva sentito,
né la voce che l’aveva richiamata con durezza subito dopo.
Un mattino, in classe,
sentì la maestra parlare di una gita.
Disse che tutte le classi sarebbero andate,
anche quella parallela, la 1B.
E fu allora che Lía sentì un nome che le fece alzare la testa.
Emma.
Emma era una bambina silenziosa della classe accanto.
Non parlava molto,
ma Lía sapeva — lo aveva sentito dire nel corridoio,
a bassa voce tra due adulti —
che anche Emma non viveva più con il suo papà.
Quel giorno, durante la ricreazione,
Lía andò da lei.
Non sapeva bene come iniziare,
così disse solo:
— “Anche tu… non puoi vedere il tuo papà?”
Emma si irrigidì un attimo.
Poi fece cenno di sì con la testa, molto lentamente.
Lía la guardò negli occhi.
E disse:
— “Tu… pensi che sia giusto?”
Emma rimase sorpresa.
Quella domanda sembrava non averla mai sentita.
Come se nessuno gliel’avesse mai fatta.
Come se non fosse permesso nemmeno pensarla.
— “Ma… l’ha detto la mamma,” rispose Emma.
— “E poi lo ha detto anche il giudice.
Lo fanno per noi.
Ci vogliono proteggere…”
La voce di Emma si abbassò man mano.
Non era arrabbiata.
Era solo confusa.
E in quel silenzio che seguì,
Lía capì che qualcosa aveva cominciato a muoversi.
Quella sera, a casa, Emma non riusciva a stare ferma.
Aveva fatto i compiti in silenzio,
aveva cenato senza dire una parola.
Ma nella sua testa la domanda di Lía non se ne andava.
“Tu pensi che sia giusto?”
Quando finalmente la mamma si sedette sul divano,
Emma si avvicinò piano.
Aveva il cuore che batteva forte,
come se stesse per fare qualcosa di pericoloso.
— “Mamma,” disse con voce sottile,
“oggi una bambina mi ha chiesto se era giusto che il papà non vivesse più con me.”
La mamma si girò subito.
La guardò seria.
Troppo seria.
— “Certo che è giusto,” rispose con tono fermo.
— “Lo ha stabilito il giudice.
E il giudice è la persona che dice cos’è giusto e cos’è sbagliato.”
Emma non rispose.
Non pianse.
Non fece domande.
Andò in camera sua,
si sdraiò sul letto,
e restò sveglia a fissare il soffitto,
mentre nella sua testa rimbalzavano due voci diverse.
Una era quella di Lía,
che parlava con il cuore.
L’altra era quella della mamma,
che parlava con la legge.
E per la prima volta,
Emma sentì che quelle due voci non dicevano la stessa cosa.
Il giorno dopo, Emma e Lía si ritrovarono all’intervallo, sotto l’albero grande del cortile.
Era un luogo un po’ nascosto, che pochi bambini frequentavano.
Sembrava il posto giusto per parlare di cose importanti.
Emma prese fiato.
Non voleva sbagliare le parole.
— “Lía… ieri sera ho chiesto alla mia mamma se era giusto che il mio papà non vivesse più con me.”
Lía la guardò in silenzio.
— “E lei?”
— “Ha detto che lo ha deciso il giudice, e che il giudice sa cosa è giusto.”
Lía abbassò gli occhi.
Poi, piano, Emma le chiese:
— “Ma tu… da dove è arrivata quella domanda che mi hai fatto ieri? Perché hai cominciato a pensarlo?”
Lía si prese qualche secondo.
Poi disse:
— “È arrivata dal mio cuore.”
Emma non parlò.
Aspettava.
— “Perché ho visto mio papà da lontano,” continuò Lía,
“stava aspettando mio fratello in macchina.
E in quel momento, qualcosa dentro di me mi ha spinta a camminare verso di lui.
Volevo salutarlo.
Volevo sentire di nuovo la sua mano accarezzarmi i capelli.
Volevo sentire il suo bacio sulla fronte.”
Le parole uscivano lente, ma precise.
— “Era un bisogno forte, Emma.
Non era un capriccio.
Era come quando vuoi bere.
Vuoi bere e basta.
Poi Lía si fermò.
Il suo sguardo si fece più duro.
— “Ma la mamma mi ha richiamata subito.
Con una voce che non lasciava scelta.
E io sono tornata a casa.
Ma mentre lo facevo, sentivo qualcosa dentro di me…
una voce che chiedeva: ‘Perché?’
Perché questo mio bisogno non è stato ascoltato?”
Emma la guardò.
Aveva le lacrime agli occhi, ma non era tristezza.
Era una cosa nuova, più forte.
E quella voce che la notte prima le ronzava in testa, ora cominciava a diventare anche sua.
Quel giorno, Emma si avvicinò a Lía con passo deciso.
Aveva il cuore che batteva forte, ma dentro sentiva che stava facendo la cosa giusta.
— “Conosco un altro bambino,” le disse,
“si chiama Francesco.
Anche lui vive lontano dal suo papà.”
Lía alzò lo sguardo.
— “Anche lui?”
— “Sì.
Frequenta un altro istituto.
Ma so che dopo scuola gioca spesso a calcio nel campetto vicino al parco.”
Le due bambine si guardarono.
Non serviva aggiungere altro.
Avevano deciso.
Quel pomeriggio si ritrovarono davanti al cancello del parco.
Avevano lo zaino ancora in spalla e negli occhi la forza di chi cerca una risposta.
Il campetto era lì, polveroso, con le porte senza rete e i ragazzini che correvano gridando.
Francesco stava tirando calci al pallone con altri due coetanei.
Aveva i capelli neri e gli occhi profondi.
Emma si fece avanti.
La voce un po’ tremava.
— “Ciao… tu sei Francesco, vero?”
Il bambino si fermò.
Il pallone rotolò piano sul cemento.
— “Sì. Chi siete?”
Il tono non era ostile, solo sorpreso.
Lía si affiancò ad Emma.
— “Siamo due bambine della scuola vicina.
Volevamo solo farti una domanda.”
Francesco si irrigidì.
— “Che domanda?”
— “È vero che vivi lontano dal tuo papà?”
Francesco abbassò lo sguardo.
Per un attimo sembrò voler scappare via.
Poi, vedendo gli occhi sinceri delle due bambine, si rilassò un poco.
— “Sì.
Vivo con la mamma.
Papà non può venire a vedermi nemmeno quando gioco a calcio.”
Un silenzio scese tra i tre.
— “E… ti manca?”
chiese Lía con un filo di voce.
Francesco non rispose subito.
Guardò verso il pallone, poi verso le montagne lontane.
— “Mi manca quando segno un gol e vorrei guardarlo negli occhi.
Mi manca quando gli altri bambini fanno le foto con il loro papà alla fine della partita.
Mi manca quando mi faccio male e nessuno sa come mi piace essere consolato.”
Era come se quelle parole fossero rimaste chiuse dentro da troppo tempo.
Ora erano uscite, semplici e vere.
Emma si avvicinò un po’.
— “Anche a noi mancano i nostri papà.”
Francesco fece un piccolo sorriso amaro.
— “Ma tanto non cambia niente, no?
I grandi decidono tutto.”
Lía scosse la testa.
— “Forse… ma forse se cominciamo a parlare tra noi… qualcosa può cambiare.
Forse.”
Francesco li guardò entrambe. Poi, quasi sottovoce, aggiunse:
— “C’è un altro bambino che gioca con me.
Si chiama Carlo.
Anche lui non vede il suo papà da tanto tempo.
Quando segniamo un gol, ci abbracciamo forte.
Non lo facciamo solo per festeggiare… lo facciamo per ricordarci che non siamo soli.”
Emma si illuminò:
— “E dov’è oggi?”
— “È rimasto a casa.
Aveva mal di gola.
Ma domani tornerà.
Se volete, potete venire di nuovo.
Forse vorrà parlarvi.”
Le due bambine si guardarono.
Il loro viaggio stava prendendo una forma nuova.
Non erano più soltanto in due.
Il cerchio si allargava.
E mentre il sole tramontava dietro le montagne, nei loro cuori iniziava a brillare una luce tenue, ma vera:
quella della solidarietà tra bambini che non hanno più paura di farsi domande.
Prima di separarsi, Lia ed Emma si avvicinarono ancora una volta a Francesco.
— “Domani torniamo al campetto. Tu ci sarai?”
Francesco annuì senza esitazione.
— “Io non mi perdo mai una partita.”
Si sorrisero. Poi ognuno prese la strada per tornare a casa.
Ma qualcosa era cambiato.
Non era solo la brezza leggera del tardo pomeriggio.
Non era solo il profumo dell’erba appena tagliata.
Era qualcosa che si sentiva dentro.
Un piccolo seme era stato piantato.
Un seme di dubbio, di consapevolezza, di forza.
Forse domani sarebbero stati in tre.
O forse in quattro.
Tornarono a casa con un pensiero nuovo.
Non era ancora chiaro, non aveva ancora un nome preciso.
Ma dentro di loro cominciava a crescere una strana certezza:
che a volte, per cambiare qualcosa, basta cominciare a parlarne.
E che quando si è in più di uno, tutto diventa un po’ meno difficile.
E mentre rientravano ognuno nella propria casa, Lia, Emma e Francesco non lo sapevano ancora,
ma stavano già scrivendo le prime righe di un cambiamento che avrebbe scosso le coscienze.
Il giorno dopo Lia, Emma e Francesco erano già al campetto.
Il cielo era terso, e un’aria nuova sembrava accompagnare i loro pensieri.
Carlo arrivò un po’ in ritardo, con il pallone sotto braccio e le guance rosse per la corsa.
Francesco lo abbracciò.
— “Ehi, oggi ci sei!”
— “Certo che ci sono. Sempre per il calcio... e per voi.”
Giocarono poco quel pomeriggio.
Erano più interessati a parlare.
A condividere.
Fu Lia a rompere il silenzio.
— “A voi qualcuno ha mai chiesto se volevate stare lontani da vostro papà?”
Emma scosse la testa. Francesco guardò a terra. Carlo si morse le labbra.
— “No.”
— “Neanche a me.”
— “Nemmeno a me...”
Quel silenzio, più eloquente di mille parole, fu interrotto da una domanda.
— “Ma il giudice... lo sa come ci sentiamo?”
Non lo sapevano.
E più ci pensavano, più si accorgevano che nessuno li aveva davvero ascoltati.
Non la mamma, che parlava sempre per loro.
Non l’assistente sociale, che diceva solo: “È per il vostro bene.”
Non i maestri, che sorvolavano con sguardi imbarazzati.
Emma, Lia, Francesco e Carlo si guardarono con occhi nuovi.
— “E se andassimo noi, dal giudice?, io so dove lavora” disse Francesco.
— “A dirgli che non siamo stati d’accordo.”
— “A chiedere: perché?”
Nacque così un’idea semplice e luminosa.
Nessuno di loro sapeva davvero come si facesse, né se fosse possibile.
Ma volevano capire.
E quel desiderio di capire era diverso da tutto il resto.
Non era rabbia. Non era pianto.
Era una scintilla.
Una piccola, purissima scintilla di verità.
Un lunedì pomeriggio, Lia, Emma, Francesco e Carlo si diedero appuntamento dopo scuola.
Avevano deciso: sarebbero andati a parlare con il giudice.
Non sapevano esattamente come, ma sapevano dove.
C’era un grande edificio in centro, imponente, con colonne e vetri alti.
Sopra l’ingresso, una scritta solenne: PALAZZO DELLA GIUSTIZIA.
Era lì.
Arrivarono in gruppo, con zainetti ancora sulle spalle e il cuore che batteva forte.
Si fermarono un attimo davanti al portone.
Poi Lia, senza dire nulla, si fece avanti e spinse la porta.
Dentro, un silenzio che faceva eco.
Pavimenti lucidi. Luci fredde.
E una persona in uniforme seduta dietro un banco.
L’uomo li guardò con un sopracciglio alzato.
— “Dove pensate di andare, voi bambini?”
— “Cerchiamo il giudice,” disse Emma con voce ferma.
— “Abbiamo delle domande da fargli,” aggiunse Francesco.
L’uomo li osservò un momento, poi si alzò.
— “Il giudice non si riceve così, bambini. Qui non è un posto per voi. Chi vi ha mandato?”
— “Nessuno,” rispose Carlo. “Siamo venuti da soli. Perché nessuno ci ha mai chiesto cosa pensiamo.”
L’uomo sbuffò, poi sembrò cambiare espressione.
Forse colpito dalla determinazione nei loro occhi.
— “Tornate a casa, piccoli. Questa non è una cosa per bambini.”
Ma i bambini non si mossero.
Non piansero.
Non urlarono.
Lia guardò l’uomo dritto negli occhi e disse:
— “Allora dica al giudice che oggi sono venuti quattro bambini a cercarlo. Che volevano solo essere ascoltati. Solo questo. Essere ascoltati.”
E uscirono.
Mano nella mano.
Non con la delusione, ma con qualcosa di nuovo nel cuore.
Avevano capito che la strada era lunga.
Ma quel giorno, anche solo per un istante, il silenzio aveva tremato.
I quattro bambini stavano per allontanarsi dall'ingresso del Palazzo della Giustizia, quando una voce gentile li fermò.
— “Aspettate un momento. Ho sentito cosa avete detto all’uscere.”
Era un uomo distinto, con una cartella di pelle sotto il braccio e una cravatta rossa a righe sottili.
Aveva uno sguardo stanco, ma buono. Il tipo di sguardo che ascolta.
— “Cosa volete dire al giudice?” chiese ancora.
I bambini si guardarono, un po’ esitanti.
Poi Carlo fece un passo avanti.
— “Vogliamo sapere perché siamo stati separati dai nostri papà.”
— “Perché non possiamo vederli,” aggiunse Francesco.
— “Perché a scuola ci dicono che tutto è per il nostro bene, ma a noi fa male,” sussurrò Emma.
— “Vogliamo sapere il perché. Solo il perché,” concluse Lia.
L’uomo li osservò a lungo.
Non rise. Non li sgridò. Non li zittì.
Poi si sedette sulla panchina accanto all’ingresso e disse:
— “Sapete… io sono un giudice.”
I bambini trattennero il fiato.
— “Non il vostro. Ma uno come lui. E vi chiedo scusa. Perché forse siamo stati troppo sordi. Troppo lontani. Forse abbiamo dimenticato che dietro ogni carta ci sono occhi, mani, e cuori piccoli come i vostri.”
— “Allora ci può aiutare?” chiese Lia con speranza.
L’uomo esitò. Guardò il cielo, che stava diventando dorato.
— “Non posso cambiare tutto, bambini. Ma posso ascoltarvi. E prometto che domani parlerò di voi. Parlerò di quello che avete fatto oggi. Perché avete fatto qualcosa che molti adulti non osano fare: avete chiesto la verità.”
I bambini si sedettero accanto a lui, uno alla volta.
E cominciarono a raccontare.
Quella sera, per la prima volta, qualcuno aveva ascoltato davvero.
Non per dovere, ma per scelta.
E quel gesto, così semplice, scosse una coscienza.
🌱 Capitolo conclusivo fiabesco (per bambini)
I quattro bambini si allontanano dal grande palazzo con il cuore più leggero. Nessuno sa se domani sarà diverso, ma oggi, per la prima volta, sono stati ascoltati. Nessuno li ha interrotti. Nessuno ha detto ”non è il momento”. Nessuno ha risposto ”il giudice ha già deciso”.
Tornano a casa camminando piano, con un sorriso negli occhi.
Non è un sorriso di vittoria.
È il sorriso di chi ha ritrovato la propria voce.
E mentre il sole tramonta dietro i tetti della città, Lia si volta e dice:
— Allora è vero… anche i bambini possono parlare e dire cosa pensano. .
E tutti, in cuor loro, lo sentono:
si, abbiamo di diritto di essere ascoltati
⚖️ Epilogo per adulti: la riflessione del giudice
Rimasto solo, il giudice siede sulla panchina accanto all’ingresso.
Nella toga non sente più alcun onore, ma solo peso.
“Che giustizia amministriamo oggi?” si chiede.
“Quando abbiamo smesso di ascoltare? Quando abbiamo iniziato a sostituire il cuore con il codice, l’ascolto con la formula, l’amore con la procedura?”
Quel giorno, nessun decreto è stato emesso.
Nessuna sentenza scritta.
Solo il silenzio. E quattro voci che ancora risuonano.
Forse, pensa il giudice, la legge non è fatta per chiudere, ma per aprire.
E forse, per ogni bambino che oggi trova il coraggio di parlare,
un adulto può ancora imparare ad ascoltare.