Ai margini di un bosco, viveva un uomo solo.
Ma non si sentiva solo.
Ogni giorno si svegliava presto per ascoltare un canto,
un canto gioioso che annunciava l’arrivo della bella stagione.
Quel canto veniva da una gabbia,
appesa accanto alla finestra.
Dentro, viveva un piccolo uccellino.
Non era nato in gabbia: era stato trovato ferito,
e l’uomo lo aveva curato con attenzione, senza mai pretendere nulla.
Lo nutriva, gli parlava, si facevano compagnia.
Ogni mattina, secondo un patto non scritto né detto,
gli apriva la gabbia: “Vai,” sembrava dirgli con lo sguardo. “Torna quando vuoi.”
E l’uccellino tornava sempre.
Perché quella gabbia non era una prigione,
era il suo rifugio,
il luogo dove il cuore poteva tornare.
Finché un giorno, arrivò un merlo.
Maestoso, lucido, fiero.
Si posò su un ramo accanto alla gabbia aperta e disse:
“Perché torni sempre? Il cielo è tuo. La vera libertà non ha ritorni.
Vieni a volare con me, ti farò scoprire nuovi orizzonti.”
L’uccellino, colpito da quelle parole, cominciò a pensare.
A desiderare non solo di volare… ma di non dover tornare.
E così, un giorno, mentre l’uomo lo attendeva alla finestra,
l’uccellino lo guardò negli occhi.
E poi volò via, senza voltarsi.
L’uomo restò fermo, con la mano ancora tesa.
Ma non chiuse la gabbia.
Ogni sera la lasciava aperta, e ogni notte sperava.
Perché quell’uccellino non era solo compagnia.
Era la voce della casa.
Era l’ultimo legame con la vita.
Era chi ascoltava i pensieri detti sottovoce.
Era la speranza che qualcosa potesse ancora tornare.
E così l’uomo, giorno dopo giorno,
continuava a cambiare l’acqua, a lasciare briciole fresche,
a guardare fuori, aspettando.
Talvolta immaginava di sentirlo,
altre volte sognava di vederlo tornare.
E si svegliava con il cuore spezzato.
Intanto, il merlo conduceva l’uccellino tra le cime più alte,
gli parlava dell’ebbrezza del cielo,
della vita selvaggia,
del vento che non si chiede dove andare.
Per un po’, l’uccellino si sentì libero davvero.
C’era però un’ombra dentro di lui.
Ogni tanto voltava lo sguardo nel timore che l’uomo comparisse tra gli alberi,
con un retino tra le mani, pronto a riportarlo indietro.
Ma non accadeva mai.
Poi, arrivarono i giorni della pioggia.
Del freddo. Della fatica.
Scoprì che la libertà descritta non era come la libertà vissuta.
Che il vento a volte graffia.
Che il cielo non offre riparo.
Che essere liberi senza protezione è solo un altro tipo di gabbia.
Un giorno, affamato e sfinito, ritrovò la casa ai margini del bosco.
Vide la gabbia ancora aperta.
Entrò, non da prigioniero, ma da viaggiatore che torna.
E cantò.
Un canto nuovo. Dolce, pensoso, libero.
Come se anche tra le sbarre non ci fosse nessuna costrizione.
Ma dentro, l’acqua era stagnante.
Le briciole secche. L’uomo non c’era più.
Forse se n’era andato. Forse non ce l’aveva fatta ad aspettare.
Allora, l’uccellino si chiese:
“E se non ci fosse più… per colpa mia?”
Da quel giorno, canta ogni sera.
Con una voce diversa.
Una nota struggente e triste si è fatta strada nel suo canto.
Un suono che nessuno dimentica: il canto dell'usignolo.